In un’epoca dominata dalla velocità e dalla complessità, le aziende che prosperano non sono le più grandi o le più strutturate, ma quelle che sanno evolvere rimanendo fedeli a ciò che sono. In questo contesto, il branding non è più un elemento estetico o comunicativo, ma una leva strategica: il vero motore della resilienza organizzativa.
Il valore trasformativo del brand
Viviamo in un’epoca in cui la solidità strutturale non basta più. Il contesto economico, sociale e culturale cambia troppo rapidamente perché la stabilità possa essere garantita da asset tangibili o da processi consolidati. Le aziende che resistono o, meglio, che evolvono positivamente sotto stress, hanno un tratto distintivo in comune: una forte identità.
Questa identità non è solo la somma di valori dichiarati, né un esercizio di comunicazione. È il cuore pulsante della cultura aziendale. È ciò che permette all’impresa di essere riconoscibile mentre cambia, di agire con coerenza in contesti diversi, di adattare la propria strategia senza perdere senso.
Il brand, in questa prospettiva, è infrastruttura invisibile. Una grammatica che regola ogni atto di comunicazione, ogni scelta strategica, ogni relazione con il mercato.
“Senza un processo di branding sei un testo scritto in una lingua che il tuo pubblico non sa leggere.”
— Giulio Federico Palmitessa, Brand & Marketing Director, Binnova
Semiotic thinking: leggere e scrivere il significato
Per comprendere il valore profondo del brand, può essere utile richiamare un modello semiotico che trova applicazione concreta anche nel business: il triangolo semiotico di Ogden & Richards.
Ogni atto comunicativo si basa su tre elementi:
- Pensiero (thought): l’idea, il significato che si vuole trasmettere
- Simbolo (symbol): il segno usato per esprimerlo (parola, immagine, gesto)
- Referente (referent): l’oggetto reale cui si fa riferimento
Nel branding, questi tre elementi devono essere coerenti e integrati. Se un’azienda pensa una cosa, ne comunica un’altra e ne fa una terza, si genera dissonanza. La dissonanza non si traduce solo in confusione: nel contesto iper-competitivo attuale, è un rischio esistenziale.
Il brand è ciò che tiene allineato pensiero, segno e realtà. Quando questi tre si disallineano, l’azienda diventa incomprensibile — e quindi, irrilevante.
Il brand come leva di adattamento culturale
Il branding non è universale. È contestuale e culturale.
Un messaggio che funziona in un mercato può essere frainteso o rifiutato in un altro.
Un caso interessante è quello di 361 Sport, secondo brand sportivo cinese e fornitore ufficiale delle Olimpiadi di Rio de Janeiro.
- In Brasile, una campagna ironica e narrativa aveva funzionato perfettamente. L’idea era di rendere lo sport accessibile e umano, raccontando storie di persone comuni che trovano motivazioni insolite per iniziare a correre.
- Negli Stati Uniti, la stessa campagna è stata respinta: troppo ambigua, potenzialmente offensiva. Il pubblico non condivideva i codici culturali impliciti nel messaggio.
Morale strategica: il brand non è un messaggio da “trasmettere”. È un linguaggio da costruire insieme al contesto.
Serve un ascolto culturale profondo, una capacità di adattamento che non rinunci all’identità.
Coerenza dinamica: come cambiare restando sé stessi
Un errore frequente è confondere coerenza con immobilismo. In realtà, la coerenza è la capacità di mantenere senso anche nel cambiamento.
Alcuni esempi emblematici:
- Patagonia: cambia prodotti, format, canali, ma non il suo “perché” legato alla salvaguardia ambientale.
- Ferrero: comunica poco, ma agisce con estrema continuità e coerenza rispetto ai propri valori fondanti.
Al contrario, casi come Kodak (che inventò la fotografia digitale ma rimase ancorata alla pellicola) o Nokia (che non colse la transizione da prodotto a piattaforma) mostrano che l’assenza di coerenza identitaria può annullare anche le migliori strategie.
Quando la strategia prende il posto dell’identità, l’azienda smette di evolversi e inizia a reagire. Smette di costruire senso e inizia a inseguire il mercato.
Il brand come fondamento dell’antifragilità
Il concetto di antifragilità — introdotto da Nassim Taleb — non si limita a “resistere” agli shock, ma descrive la capacità di crescere grazie all’instabilità.
Nel business, questo significa sviluppare identità che si rafforzano nel cambiamento, anziché subirlo.
Un brand antifragile:
- È radicato in un purpose autentico
- È riconoscibile anche in contesti mutevoli
- È capace di apprendere e adattarsi
- Conserva coerenza tra narrazione e azione
E come sottolinea Simon Sinek, il “perché” di un’organizzazione non si costruisce con la logica, ma con l’intuizione, con la coerenza tra pensiero e azione:
“Purpose cannot be rationalized. It is felt.”
— Simon Sinek – Purpose Cannot Be Rationalized
Il brand, quindi, è ciò che traduce questo “perché” in una promessa incarnata. Una bussola che orienta l’impresa anche quando tutto intorno si trasforma.
Conclusione: il brand non è un lusso, è un’infrastruttura strategica
Il branding non è un progetto accessorio. È una scelta di architettura culturale e strategica.
Serve a costruire identità leggibili, relazioni significative, traiettorie evolutive sostenibili.
In un contesto in cui la solidità non basta, serve antifragilità.
E non esiste antifragilità senza identità.
Oggi, il vero capitale delle imprese non è (solo) finanziario, tecnologico o organizzativo. È semantico: la capacità di generare e mantenere senso.
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